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Dove nasce l’aroma: la lavorazione del caffè

Tre lavoratori in piantagione selezionano manualmente i chicchi di caffè con setacci circolari, immersi tra le piante su una collina con vista panoramica.

Il viaggio del chicco: dal frutto alla fiamma che non brucia

Ci sono storie che iniziano sotto il sole di un altopiano tropicale, tra le mani nodose di un contadino che raccoglie con pazienza le drupe mature, quelle dalla buccia rosso fuoco, quasi rubino. È lì che nasce il caffè, non come bevanda, ma come promessa.

Ma è solo l’inizio.

Dopo il raccolto, il tempo diventa un alleato impaziente. Se i chicchi non vengono estratti dal frutto entro pochi giorni, la polpa inizia a fermentare, e ciò che era promessa rischia di diventare spreco. È per questo che il percorso prosegue immediatamente con una scelta antica quanto il mondo: trattamento a secco o in umido.

Il tempo del sole: il trattamento a secco

Nel trattamento a secco, il sole prende il posto dell’acqua. Le bacche sono stese su ampie stuoie o graticci e vengono girate più volte al giorno, come si rimescola una storia perché non si inacidisca. È una danza lenta, fatta di gesti tramandati, dove ogni passaggio conta.

Quando la polpa si secca del tutto, entra in scena la snocciolatura. I frutti ormai coriacei passano in una macchina decorticatrice che rompe la buccia e il pergamino, liberando finalmente i chicchi, pronti a mostrarsi per ciò che sono.

Poi arriva la setacciatura, una sorta di selezione naturale: i chicchi vengono separati dalle scorie, ordinati per grandezza, come per dire che ogni dimensione ha il suo destino in tazza. Il caffè così prodotto si chiama naturale, o non lavato. È un caffè che ha assorbito il sole e la terra. Più selvatico. Più sincero.

Il tempo dell’acqua: il trattamento in umido

L’altra via è quella dell’acqua. Dopo la raccolta, le drupe passano in spolpatrici, macchine che, con il supporto di un flusso d’acqua costante, spezzano buccia e polpa per liberare i semi. Ma non è finita. I chicchi sono ancora avvolti da una sottile mucillagine dolciastra, quasi invisibile.

Qui entra in scena la fermentazione. I chicchi riposano da uno a tre giorni in vasche piene d’acqua, dove lieviti e batteri naturali lavorano in silenzio, decomponendo la mucillagine e arricchendo l’aroma finale di sfumature complesse.

Dopo il lavaggio nei canali, tornano al sole. L’essiccazione è di nuovo un rito. Poi, come nella versione naturale, si procede con snocciolatura e setacciatura.

Il risultato? Un caffè lavato, più pulito, più acido, più elegante. Come una melodia in tonalità minore che ti resta in mente a lungo.

Il tocco finale: la tostatura che non brucia

Eppure, tutto questo sarebbe solo il preludio se non ci fosse un ultimo passaggio, quello che trasforma il chicco verde in poesia liquida.

Nel nostro caso, non parliamo di una tostatura violenta, quella che brucia gli oli essenziali e uniforma i profumi. Ma di una scelta più delicata e consapevole: la tostatura a freddo.

Un processo più lento, meno invasivo, in cui il calore è controllato con precisione per non alterare la complessità aromatica sviluppata durante la lavorazione. Non c’è fretta. Non c’è fuoco che divora. Solo un calore gentile, che rispetta il chicco e ciò che ha vissuto fino a quel momento.

È qui che il caffè, finalmente, racconta la sua storia.

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